Scegliere cosa mostrare è una bella responsabilità.
Dal mio lavoro ho imparato a pormi molte domande. Questa è un’assoluta certezza.
Lavoro nell’ambito della comunicazione ed è eticamente impossibile non soffermarsi sull’uso delle immagini, in un’epoca in cui le immagini sono un forte strumento di facile consenso massificato. Un serio professionista non può non permettersi di chiarire la sua posizione in merito a questo tema, io credo.
E due domande ha il dovere di porsele.
Penso anche che se ne abbia ancora più il dovere etico quando si ha a che fare con il marketing solidale e le campagne di fundraising. Chi opera nel campo di terzo settore, fondazioni, onlus, cooperative e associazioni di vario genere e cura, direttamente o indirettamente, la parte di raccolta fondi dovrebbe fare una seria analisi riguardo alle immagini da utilizzare e misurasi con le proprie opinioni prima di realizzare le comunicazioni al pubblico. Si ha una grande responabilità e non è vero che ci si improvvisa comunicatori. Anche perchè la scelta delle immagini, che sono un potentissimo veicolo di messaggi, dice molto sulla realtà stessa e su chi la conduce e perchè.
Lavorando per clienti privati – ma anche per imprese sociali – mi sono spesso fermata a pensare su cosa sia lecito fare a riguardo, e ancor più su cosa sia giusto fare.
Per questo scelgo di collaborare con realtà che hanno le mie stesse affinità elettive e una sensibilità simile alla mia. La cosa interessante è che da loro stessi ho ricevuto moltissimi stimoli negli ultimi anni per affinare le riflessioni sul tema. Dal personale medico ad esempio ho imparato ad identificare la disabilità da piccoli, delicatissimi dettagli che prima non ero nemmeno capace di leggere. Confrontandomi con i colleghi e i loro pensieri ho affinato i miei.
Anche grazie alle riunioni formative con gli psicologi e il personale preposto delle realtà per cui collaboro, che compiamo di volta in volta per aggiornarci sulla vita e la comunità, ho imparato aspetti medici e provato ad individuare ciò che possiamo ed abbiamo il dovere di trasferire. Mi sono stati forniti strumenti utilissimi per dare forma al mio pensiero e di questo ne sono loro davvero grata.
Per arrivare a mettere un punto sulla situazione dell’uso inappropriato delle immagini nelle campagne di raccolta fondi, bisogna prima scremare tutte le polemiche che hanno sempre diviso le varie associazioni. Solo in questo modo probabilmente potremo arrivare al punto nodale: ridare dignità ai protagonisti di quelle immagini, troppo spesso usate al limite della cosiddetta “pornografia del dolore”.
Quali immagini si possono pubblicare? Cosa sia giusto mostrare e cosa no? Apre sempre un dibattito molto acceso, perchè non si può lanciare il sasso e nascondere la mano: anche e soprattutto le immagini raccontano.
Credo, molto, dipenda dalla Voce del racconto.
Certo, molte volte confrontadomi con altre realtà solidali, capita di vedere la strumentalizzazione del dolore e questo è un aspetto che non solo non mi piace per niente, addirittura mi urta.
Mi infastidisce molto notare quando manca il rispetto per chi vive lo svantaggio e per le persone care che gli sono rimaste accanto (che non sono scontate per niente) e hanno avuto i loro problemi a gestire il naturale disagio.
Per me scegliere cosa mostrare fa parte dei valori etici che si hanno. Come comunicatore e fundraiser (quello sono io, oltre che a un amico che ha deciso consapevolmente di sposare una causa) ho scelto che non utilizzerò mai immagini dove le persone vengono private della dignità.
Questo è un passaggio molto delicato: privare le persone della propria dignità significa strumentalizzarle e sottolineare il fatto che siano vittime, e quindi in altre parole degli svantaggiati che meritano aiuto, ma proprio in quanto svantaggiati dei secondi nella società. Da qui è evidente: il vittimismo è già strumentalizzazione. Se rispetti una persona: le parli, la guardi negli occhi, le stai accanto, cerchi di confortarla, la prendi per mano se necessario, l’abbracci e cerchi di darle un futuro. Anche se sarà breve (se la malattia sarà destinata a strapparlo via), anche se sarà dura per entrambi.
Non mi capiterà MAI di mostrare bambini i cui corpi sono consumati dalla fame, malati claudicanti o peggio con i segni ineluttabili dello svantaggio nato o acquisito, persone svantaggiate perchè incapaci di inserirsi nella società o a cui questo diritto viene negato.
Questo l’ho maturato quando mi hanno invitata ad analizzare le fotografie, anche che faccio io e che penso essere giuste, e a riconoscere quelli che possono essere pesantissimi dettagli invisibili.
Quella che voglio portare avanti io lo so che è dura e per niente banale: è una comunicazione della vita e della speranza, una comunicazione dell’opportunità, in grado di generare energia e risorse.
Vorrei che le persone comprendessero che ci sono situazioni ben più difficili di quella che stanno vivendo loro e che, nel loro piccolo, possono fare qualcosa per migliorare la vita della comunità in cui vivono (se sono nella condizione di poterlo fare).